Page 37 - L'Acqua Muta, l'Acqua Nuova, l'Acqua Rubata
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Alcune testimonianze letterarie (Grecia, Arbëria, Sardegna)
essenziale l’occasione e gli strumenti per dare alla reciproca attrazione dei corpi una
sorta di imprinting, un archetipo che facesse da base alle future relazioni.
Quel giorno tutto io vissi come un’iniziazione o un sacramento. E quando le fiamme
scemarono e tutte le stoppie furono bruciate, con la stessa sacra dedizione con cui mi
ero affidata alle mani sconosciute che mi avevano afferrata, mi unii alla fila
scomposta nel viottolo buio che portava fuori dal paese all’abbeveratoio di Funtana
‘e cannones’, a cui i pastori fermavano gli animali prima della risalita.
«A s’abba muda», aveva gridato qualcuno. Ponendo fine ai salti e proseguendo il
rito.
All’acqua muta. Questo era il nome dato all’ultima parte della festa, quella in cui il
silenzio avrebbe permesso a ciascuno/a di assimilare l’esperienza e ritrovarsi alla fine
trasformato/a, capace di vivere l’attrazione della carne secondo un archetipo di
gioia, energia, complicità, abbandono, libertà, (in)dipendenza, socialità che avrebbe
dovuto caratterizzare, se fortunati, le loro future relazioni amorose.
Era infatti questo il seguito del rito: bere l’acqua di sorgiva, trattenerne in bocca una
sorsata e nel buio riprendere in silenzio insieme l’uno accanto all’altra la strada del
ritorno verso il fuoco. Una nuova comunità nascente di giovani e di fanciulle, quella
in cui sarebbero nati gli amori e i matrimoni, i figli e il loro futuro, camminava in
processione muta, intenta ad ascoltare, nel silenzio della notte profumata di mirti e
lentischi, il battito dei cuori, così forti quelli dei maschi che sembrava riempissero
l’universo. La luna piena, rossa dei vapori di maggio, sosteneva i miei passi timidi,
composti, ultimi passi di bambina, e illuminava i miei capelli corvini sulla testa china
sul petto, a ricevere la benedizione della notte di san Giovanni sul mio corpo di
piccola donna che si apriva devota al suo destino d’amore.
Infine, con un ultimo gesto rituale, si gettava sulle fragili braci rimaste l’acqua che
aveva tenuto le labbra serrate e generato il silenzio. In esso l’anima aveva assaporato
lo stupore estatico che nasce dalla libertà, la potenza vitale del desiderio, la sicurezza
che viene dall’aprirsi all’ignoto obbedendo a sapienze ancestrali, la gioia appagante
che nasce dalle emozioni vissute in consapevolezza. Il silenzio aveva chiuso il gioco
e spento l’euforia senza reprimere l’eros e aveva inseminato l’attesa dell’(A)amore
non con fantasmi e ossessioni eterodirette ma con la memoria individuale e collettiva
di quella notte incantata.
Seduti sui gradini di pietra, i vecchi – donne e uomini – rispondevano ai saluti e
avevano di nuovo negli occhi lo splendore limpido con cui quella festa aveva anche
per loro inaugurato il tempo degli amori. E il cerchio del tempo aveva in quella notte
ancora una volta percorso il suo giro.
CANZONE DEI FUOCHI DI SAN GIOVANNI
(ARDAULI, crepuscolo dell’acqua muta: canzone per l’acqua, il fuoco, l’erba e le stagioni)
A bortas s’abba es muda
a bortas canterina
lughet in sa pischina
curret in sa campagna
tronat dae sa muntagna