Page 36 - L'Acqua Muta, l'Acqua Nuova, l'Acqua Rubata
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AMILITO NERÓ – UJËT E VJEDHUR – S’ABBA MUDA
femmine, grandi e piccoli e, in un crescendo di risa ed euforia, si saltano le fiamme,
dandosi le mani e sgranocchiando grani di spighe verdi abbrustolite al fuoco.
Quando ero adolescente io, a metà degli anni Cinquanta, le fiamme rompevano la
notte buia delle strade quasi totalmente prive di illuminazione e offrivano per una
volta, alle porte dell’estate, l’occasione per prolungare il giorno in una brevissima
“notte bianca” ante litteram, in cui lo sguardo dei vecchi, seduti sulle panche di pietra
accanto alle porte delle case, facevano da sentinelle d’onore e da controllo discreto al
divertimento giovanile. Tra un salto e l’altro si facevano fugaci conoscenze, si
scambiavano sguardi e si stringevano promesse, ripetendo la litania che
accompagnava il giuramento siglato dai mignoli intrecciati a catena.
Comare, comare, su pane e isposare/ su pane e’allegria/ comare fitza mia
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Si diventava così compari e comari di San Giovanni e soprattutto tra i più piccoli si
stringevano scherzosi sposalizi che duravano una sera.
Ai miei tempi, varcata appena la soglia della pubertà, quel giorno di San Giovanni
di un anno imprecisato mi spinsi lontano nel giro delle strade, interdette nel resto
dell’anno a noi giovinette in fiore, obbedienti al comando che le strade, come i nostri
corpi, servivano per raggiungere delle mete e non per aggirarvisi in passi
inconcludenti e senza senso. Giunsi addirittura, di fuoco in fuoco, fino alla Rocchita,
il quartiere della Macomer vecchia, acciottolata di sassi e di casette basse, addossate
l’una all’altra, percorsa da stradine tortuose degradanti in discesa verso l’antica
chiesetta di Santa Croce, e che si prolungavano in case sempre più rare e sparse fino
alla campagna, interrotte solo da qualche casa signorile che offriva con l’opulenza di
qualche balcone in ferro l’idea che non tutti erano uguali neanche lì, dove una
povertà decorosa laboriosamente vissuta faceva da cemento alle relazioni sociali. In
una di quelle case, in una di quelle strade abitavano sette fratelli, di cui lo sguardo
ammaliato del paese aveva trasmesso la fama anche a me, che mai li avevo
conosciuti. Erano i figli bellissimi di una madre vedova che aveva perso il marito
ferroviere nel pieno della sua gagliardia e aveva lasciato in eredità ai figli la luce della
sua bellezza e l’onore della sua professione. Come un faro di luce quella giovane
schiera di uomini illuminava le storie del paese di cui le donne parlavano sottovoce
sugli usci delle case. Non c’era da meravigliarsi, dunque, se il fuoco che essi tenevano
ancora acceso quando ormai la sera si era fatta notte, fosse alto, vibrante e la meglio
gioventù vi si fosse data appuntamento, mentre i vecchi tenevano aperti gli usci di
casa, contenti di sentire nelle voci e nei gridi di festa la forza assicurata del
ricambio generazionale.
Non c’erano tabù, né le madri avevano fornito decaloghi né suggerito particolari
prudenze per quella festa. Per partecipare bastava entrare nel gioco e abbandonarsi
all’onda: due ragazzi ti avrebbero presa per mano con forza e decisione, trascinata
con loro nella corsa ed innalzata sulle fiamme nel salto liberatore. Non vedevi né i
visi né i corpi, non c’erano parole che non fossero quelle consacrate dal rito, non fini
nascosti se non quello, non detto ma evidente, di fare della festa il luogo della libertà
dei corpi e della ritualità che la accompagnava e in cui il silenzio giocava un ruolo
38 Comare, comare, il pane per sposarsi, il pane di allegria, comare figlia mia.